La diffusione del vertical farming è incompatibile con la crisi energetica

2023-03-16 17:36:23 By : Ms. Mercy Du

I leggendari giardini pensili di babilonia, edificati intorno al 590 a.C. dal re Nabucodonosor II, sono un sogno mitico, una fantasia da sempre vagheggiata dall’umanità. Tanto che greci e Romani li consideravano la settima meraviglia del mondo, in quanto archetipo di bellezza estetica e di virtuosa interconnessione tra le architetture naturali e quelle artefatte.

Questo immaginario di ente naturale che si eleva verso il cielo sorretto dalle costruzioni umane è stato declinato in vari modi nel corso delle ere, in un percorso che collega l’antichità fino al bosco verticale di Porta Nuova a Milano. Non solo, è un modello che da sempre ha ispirato l’innovazione delle tecniche agricole di coltivazione, come le popolazioni indigene sudamericane che piantavano mais sui pendii delle Ande, oppure i terrazzamenti di riso in Cina che facevano risparmiare l’acqua con l’uso di strati di terreno posti in verticale l’uno sull’altro.

Oggi questa utopia affascina ancora di più perché, se forse abbiamo perso l’ancestrale contatto con il mondo naturale, la crisi climatica, la crisi idrica e la crisi alimentare ci hanno ricordato che lo sfruttamento acritico delle risorse e delle fonti di energia inquinanti è una strada che potrebbe condurre la nostra civiltà verso un vicolo cieco.

All’ideale teologico ed estetico abbiamo aggiunto quello economico-ecologico. Le nuove tecniche di produzione agricola sostenibile in grado di farci produrre di più inquinando di meno, rappresentano il paradigma contemporaneo della meraviglia. La produttività sostenibile ci affascina almeno tanto quanto la bellezza incantava gli antichi che ammiravano quei magnifici giardini babilonesi.

Sì, perché il prezzo da pagare per questa forsennata capacità produttiva di cui siamo in grado oggi è l’impoverimento dei terreni, ma soprattutto gravissime conseguenze ecologiche tra cui la desertificazione, l’inquinamento delle falde acquifere, la deforestazione e i cambiamenti climatici. Sono stati perciò sperimentati metodi di coltivazione meno impattanti sull’ambiente, e tra questi c’è il vertical farming.  

In epoca moderna l’idea di agricoltura verticale realizzata su edifici a più piani per far fronte alla crisi ambientale è stata concepita durante la rivoluzione verde. Nel 1970 gli agronomi tedeschi Riethus e Bau intrapresero un progetto per la produzione di ortaggi in una serra alta 13 metri durato quattro anni, che tuttavia portò a negare la possibilità di coltivare verdure in serre a più piani nelle zone temperate del pianeta. Il motivo? Le estati troppo calde e gli inverni troppo bui. Il progetto di agricoltura a più piani fu dunque momentaneamente abbandonato.

Ma questa idea non è rimasta nel cassetto: oggi, infatti, si moltiplicano nel mondo diverse varietà di vertical farming , che utilizzano nuove tecniche per ovviare ai problemi di coltivazione.  Come hanno spiegato a Linkiesta Giacomo Cocetta e Antonio Ferrante, docenti dell’Università degli Studi di Milano ed esperti di sistemi colturali, «con il termine vertical farming si intende un sistema di coltivazione allestito all’interno di ambienti chiusi e caratterizzato da un totale controllo dei parametri ambientali». 

L’agricoltura verticale odierna è attuata in serre molto tecnologiche, quasi futuristiche, che includono la disposizione delle colture in moduli sovrapposti verticalmente. In queste speciali serre hi-tech la temperatura, la luce, l’umidità e l’acqua sono controllate artificialmente ricreando un ecosistema che rende possibile la produzione di frutta e verdura anche in un ambiente chiuso. La maggior parte delle strutture sfrutta «una combinazione di tecniche quali l’acquaponica, l’idroponica o l’aeroponica».

La tecnica idroponica, quella più utilizzata, è un metodo di coltivazione senza terreno che si pratica utilizzando soluzioni nutritive minerali disciolte nell’acqua. Le piante, infatti, non hanno necessariamente bisogno di terra, ma possono essere coltivate con le sole radici immerse nel liquido nutritivo costituito da sostanze naturali, sostenute da un substrato inerte come argilla, ghiaia, fibre o perlite.

In questo sistema, le piante non hanno necessità di estendere molto le proprie radici, perché non devono consumare energia alla ricerca di nutrienti come avviene normalmente a terra. 

Come ricordano i professori, «i benefici che il vertical farming può apportare da un punto di vista ambientale sono legati soprattutto alla possibilità di allestire le strutture in aree urbane o in contesti industriali dismessi e da recuperare». Inoltre, «grazie alla elevata produttività e alla quasi totale mancanza di perdite di acqua per evaporazione dal substrato, i sistemi di coltivazione verticali permettono un uso più razionale della risorsa idrica ed un risparmio rispetto ai sistemi di coltivazione in pieno campo». 

Una di queste eccellenze è presente anche in Italia e si chiama Planet farms, una start-up fondata da Luca Travaglini e Daniele Benatoff che ha in provincia di Monza e Brianza il suo quartier generale. Planet Farms – che ha vinto il premio all’innovazione Smau 2020 – si serve di una tecnologia altamente all’avanguardia che permette di coltivare in ambienti puri e controllati. Stiamo parlando delle cosiddette camere bianche, dove l’aria viene filtrata.

A Cavenago, in provincia di Monza, hanno installato un impianto di diecimila metri quadrati: è la più grande fattoria verticale presente in Europa. Il loro approccio da multinazionale li ha portati anche all’estero. Come in Portogallo, dove possiedono una società che si occupa di intelligenza artificiale per l’automatizzazione dei processi. E anche in Olanda, grazie a una partnership con Signify (ex Philips Lighting, ndr) che ha fornito alla società le luci a led indispensabili per la coltivazione delle piante. 

«Il connubio di tecnologia e automazione degli stabilimenti Planet Farms, sviluppati in ottica di economia circolare ed efficienza produttiva, consente un notevole risparmio di risorse, in primis di acqua (più del 95 per cento) e di suolo (del 90 per cento)» ha detto Travaglini a Linkiesta. Non dobbiamo però farci trarre in inganno dal desiderio di pensare che questa possibile strategia per fronteggiare la crisi ambientale sia la soluzione definitiva. In campo agricolo, è un modello imperfetto sotto alcuni punti di vista. 

Innanzitutto è un metodo costoso per i produttori (e di conseguenza per i consumatori). Inoltre, bisogna tenere in considerazione che «i sistemi di vertical farming sono particolarmente indicati per la coltivazione di ortaggi a foglia della tipologia baby leaf per via della brevità del ciclo produttivo (spesso inferiore al mese, dalla semina alla raccolta). Infatti, colture a ciclo più lungo possono presentare degli svantaggi in quanto richiederebbero maggiori input idrici e nutrizionali».

A queste difficoltà Travaglini risponde che è fiducioso nelle nuove tecniche ancora in fase di sperimentazione. «Le applicazioni della nostra tecnologia e il nostro lavoro di ricerca ci porteranno più lontano: stiamo sviluppando nuove coltivazioni con applicazioni che vanno anche al di là del campo alimentare e si estendono al farmaceutico, al settore della cosmetica e delle fragranze, al tessile e al mondo del vino e dei distillati». 

Ma il vero punto debole di questa tecnica, come ricordano i professori, è che richiede molta energia per essere applicata. «Essendo completamente isolati dall’esterno, i sistemi di coltivazione chiusi hanno una richiesta energetica elevata, necessaria a garantire il mantenimento di condizioni di coltivazione idonee in termini di luce e di temperatura».

Serre costruite su più livelli sovrapposti raramente possono dipendere dalla luce solare. Data la disposizione verticale delle coltivazioni, le luci artificiali colpiscono le piante ad un angolo tale per cui, al fine di illuminare le colture agli ultimi piani, si rende necessaria un’esposizione di gran lunga maggiore rispetto alle piantagioni su un tradizionale terreno orizzontale. 

Questo svantaggio, sommato alla necessità di rendere automatizzati molti dei processi e di mantenere costanti i parametri vitali per le piante in modo artificiale (come ad esempio il costante riscaldamento), fa sì che mediamente il costo energetico per un chilogrammo di prodotto superi dai 30 ai 176 chilowattora quello necessario per la stessa quantità coltivata in una serra tradizionale.

In dettaglio, per quanto riguarda il metodo dell’idroponica, il consumo totale di energia necessaria alla produzione di lattuga è di circa 90mila kJ per kg di lattuga.

Se i vantaggi in termini di risparmio idrico e consumo di terra sono indubbi, con il vertical farming il problema energetico diventa ancora più grande. Le magnifiche sorti e progressive indicateci dalla tecnologia, in ogni ambito si scontra con la questione energetica. Anche in questo aspetto, però, gli sforzi di Planet farm non sono da poco. Travaglini sostiene di «impegnarsi per utilizzare al meglio le risorse, ad esempio, tramite l’utilizzo di speciali lampade LED ad alta efficienza e risparmio energetico. L’obiettivo è quello di essere interamente approvvigionati da fonti sostenibili entro il 2025».

Tutte le novità tecnologiche che aprono nuove prospettive di sostenibilità devono necessariamente passare al vaglio dello Scope 2, l’indicatore utilizzato per misurare la quantità di CO2 che derivano dall’energia con cui sono alimentati gli impianti di produzione. Infatti, come ci insegna la seconda legge della termodinamica, ogni cosa che compie un lavoro ha bisogno di essere alimentata da una fonte energetica, perciò anche le più grandi ed efficienti innovazioni tecnologiche avranno bisogno di essere energeticamente sostenibili. 

La buona volontà, come visto, non manca, e nemmeno l’inventiva umana che non ha mai finito di superare sé stessa, specie nei momenti di maggiore necessità. A Singapore la futuristica SkyGreens , ha cercato di risolvere il problema energetico, attraverso un sistema di rotazione dei suoi 38 piani di coltivato, che funziona grazie all’energia idraulica.

In questo modo, non sono necessarie luci artificiali, perché ogni modulo in cui sono piantati i vegetali può ricevere direttamente la luce solare proveniente dal tetto, anche se non in modo costante. Innovazioni come questa fanno ben sperare, con l’augurio però che vengano sorrette da altre tecnologie che facilitino l’uso di energia a basso impatto climalterante.

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