Sahel, viaggio nelle "terre aride": con la tecnologia idroponica il Senegal torna di nuovo a coltivare - la Repubblica

2023-03-16 17:35:36 By : Ms. Monica Zeng

BOULAL - “Non abbiamo più acqua”. La pronuncia a voce bassa Amath, come una verità da voler nascondere anche a sé stesso. Di anni ne ha 52 e di mestiere fa il contadino. Occhi gentili che guardano l’orizzonte, ma sembrano spenti. Una manciata di capanne il suo villaggio, attorno la savana. “Il caldo è aumentato, la stagione delle piogge non è più quella del passato. L’erba cresceva e si poteva coltivare – racconta – Alberi e arbusti si seccano e non cresce più nulla. Coltivare è diventato impossibile”. Siamo nella fascia del Sahel, in arabo “bordo del deserto”, Nord del Senegal, una vasta area tra la zona del Sahara e quella della savana che taglia trasversalmente l’Africa. Qui la desertificazione si è particolarmente accentuata negli ultimi decenni. La stagione delle piogge si è ridotta a poco più che brevi precipitazioni, mentre la popolazione è cresciuta in misura inversamente proporzionale, ma senza che siano cresciute con essa adeguate infrastrutture idriche. 

Lo sviluppo rurale riparte dall'innovazione. Non appena ci si allontana dalle sponde del fiume Senegal, confine naturale con la Mauritania, il paesaggio cambia aspetto: arbusti e, di quando in quando, qualche albero che resiste nonostante tutto, come le persone che non vogliono abbandonare la propria terra. Qui i pozzi non fanno parte del volontariato anni ’70, sono una attualissima necessità per la sopravvivenza. L’istruzione e gli altri diritti vengono dopo se prima bisogna darsi da fare per cercare acqua. La conseguenza diretta è un contesto di povertà dilagante, emergenza alimentare e diritti negati tanto per i giovani che per le donne. Basti pensare che i due terzi della popolazione senegalese hanno meno di 30 anni ma un indice di alfabetizzazione fermo al 52% (fonte: CIA World Factbook 2020) e che, nonostante dal 2010 esista una legge per la parità di genere si è ancora lontani dall’applicarla realmente: povertà e mancanza di educazione sessuale restituiscono elevati tassi di gravidanze e matrimoni precoci, oltre che una diffusa pratica di mutilazioni genitali femminili. 

I riverberi sulla stabilità del Senegal. Ad uno scenario così complesso si sono aggiunte negli ultimi mesi le conseguenze della guerra in Ucraina con i prezzi dei carburanti e di diversi generi alimentari volati alle stelle. Una situazione che si riverbera anche sulla stabilità politica del Paese che, non più tardi dell’altro ieri, ha assistito, durante l’elezione del presidente del parlamento, ad una rissa sedata solo dall’intervento delle forze dell’ordine. Sembra ormai lontano il World water forum, tenutosi lo scorso marzo a Dakar. Una scelta non casuale per un appuntamento dal titolo inequivocabile: “Water security for peace and development”. Un summit globale sulle politiche dell’acqua che scarseggia per il 40% della popolazione mondiale: dall’igiene all’impiego per lo sviluppo rurale mettendo al centro l’innovazione.

Il Progetto Agri.Sene. proprio dall’idea di mettere l’innovazione al servizio delle aree svantaggiate che è nato il programma “Innovazione per lo Sviluppo” dedicato a soluzioni esistenti, concrete, inclusive e sostenibili che ha l’obiettivo di potenziarle o replicarne l’applicabilità in altri contesti. In questo perimetro la Call Tecnologie per lo Sviluppo Sostenibile, promossa da Fondazione Cariplo e Fondazione Compagnia di San Paolo, ha permesso, dopo un processo di selezione terminato a novembre 2020, la realizzazione del progetto “Agri.Sen”: un sistema di coltivazione idroponica, economicamente sostenibile e a basso apporto tecnologico, particolarmente adatto al contesto di Boulal, comune dell’area del Sahel.

Design, ingegneria e sviluppo sostenibile. Un mix di tre elementi che ha visto l’ARCS in partenariato con Glocal Impact Network, per l’applicazione della tecnologia Agritube. Questa, già sperimentata con successo in altri contesti africani, ha come scopo principale la realizzazione di un sistema di coltivazione idroponica a basso apporto tecnologico, dove ARCS ha avviato da anni un percorso di empowerment della comunità locale, in particolare dei gruppi di promozione femminile, che riuniscono più di 400 produttrici. Maggiore sicurezza alimentare, grazie alla disponibilità di prodotti freschi e locali, e accesso a fonti di reddito complementari, grazie alla commercializzazione, sono i principali benefici che l’intera comunità sta traendo dall’iniziativa. 

L'impatto negativo sullo sviluppo locale. Il progressivo deterioramento degli ecosistemi e delle risorse naturali della zona genera, infatti, un impatto negativo su sviluppo locale, sicurezza alimentare, disponibilità d’acqua e opportunità di impiego. La regressione della qualità del suolo dovuta a tecniche di gestione non sostenibili, macchinari agricoli insufficienti, mancanza di sementi di buona qualità, insieme ai cambiamenti climatici, agisce a discapito della biodiversità e della produttività dei terreni e quindi delle opportunità di impiego e reddito soddisfacenti.

Le donne come fattore di contrasto alla povertà. L’agricoltura su piccola scala rimane, quindi, tra i principali settori economici e vede impiegate in maggioranza donne, responsabili della produzione alimentare per la famiglia, ma più vulnerabili rispetto agli uomini: a loro si offrono minori opportunità di formazione e crescita personale, con scarso accesso a risorse finanziarie e produttive. Al contempo le statistiche della Agence Nationale de Statistique et de la Démographie dimostrano che in ambito rurale i nuclei familiari con a capo le donne hanno una maggiore capacità di reagire alle condizioni di povertà.

Le 402 donne impiegate in tutta la filiera. “Abbiamo realizzato 4 moduli da 240 piante – spiega Ibrahima Sall, agronomo responsabile del progetto, parte del team di Glocal Impact Network che ha concorso alla realizzazione degli impianti – che vengono coltivate fuori suolo con evidenti risparmi sia in termini di acqua ma anche di sforzo da parte delle coltivatrici”, il riferimento è alle 402 donne impiegate in tutta la filiera di realizzazione. Dalla ricerca di materiali in loco, alla formazione pratica con la messa a germinazione delle sementi, fino al monitoraggio tecnico e biologico della produzione. “Tutto questo”, racconta Sadio Diankha, presidentessa di GPF, una delle associazioni di donne coinvolte nel progetto “Tutto ciò che vedete qui, lo abbiamo fatto noi”.